Anche la quantità di shampoo utilizzato in salone può far scattare i controlli del Fisco. Può sembrare assurdo, vero? Ma è successo e può succedere ancora.
Con l’ultimo Dpcm i saloni d’acconciatura possono restare aperti ma devono stare ancora più attenti, (non da subito, visto che per l’emergenza coronavirus la notifica di accertamenti è ‘ferma’ per il tutto il 2020), perché il Fisco ha, grazie ad una recente sentenza, uno strumento in più per i propri controlli: lo shampometro, ossia la ricostruzione di quanti clienti sono stati serviti in base al consumo di shampoo.
Tutto parte dalla sentenza n. 2684/7 datata 23 settembre 2020: il CTR del Lazio ha ritenuto legittimo l’operato dell’Agenzia delle Entrate nel momento in cui aveva individuato il consumo di shampoo come indizio di evasione di un parrucchiere. Nel caso specifico una società di servizi per saloni di barbieri, parrucchieri e centri estetici, si è vista recapitare un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate con maggiori imposte (Irap, Ires ed IVA, maggiorate da sanzioni ed interessi) per un importo di 77.766 euro. Il Fisco aveva basato l’accertamento sulla discrepanza tra le spese per materie prime (in primis shampoo appunto) e i redditi dichiarati per l’attività. Sulla base di questi acquisti, le Entrate hanno dedotto guadagni maggiori non dichiarati. Di conseguenza hanno calcolato le imposte dovute. Naturalmente la società implicata ha fatto ricorso ma la Cassazione ha dato ragione all’Agenzia delle Entrate creando così un precedente importante.
Il metodo analitico-induttivo dello shampometro, ovvero un metodo analogo a quello del cosiddetto “tovagliometro” (il numero dei tovaglioli utilizzati dal ristoratore), può quindi essere usato dalla Agenzia delle Entrate come metodo di accertamento, e la Cassazione l’ha in più occasioni ritenuto legittimo e idoneo.
Voi cosa ne pensate?